Artemide

Il tango secondo Elisabetta Vicenzi

 

ELISABETTA VICENZI. Sulla carta lavora dietro le quinte. In realtà è un’entità a tratti silenziosa e invisibile, a tratti il suo contrario, sempre davanti al palco, seduta tra il pubblico o in cabina regia. E ha una sensibilità particolare – per l’emozione, l’energia, lo spazio, il linguaggio dei corpi. Quando racconta, è consapevole di ogni sfumatura che disegna con il suo raccontare. Quando dirige tutto l’insieme è come se – con attori, fonici, scenografi, costumisti – facesse un giro, due giri, tre giri di tango. Una tecnica quasi infallibile, dice, anche per varcare muri impenetrabili.

Che cos’è il tango per te, Elisabetta?
Non penso che il tango sia un ballo, credo che sia una filosofia di vita: per questo motivo, l’ho sempre amato. Quando un uomo e una donna lo ballano insieme, iniziano a capire se si possono affidare l’uno all’altra (anche solo in un semplice ballo, non deve esserci per forza una storia d’amore reale). Tant’è che ci sono signori o signore – e io ne conosco alcuni esempi – che dicono: “Ah no! Io ballo solo con lei/lui”. Perché? Perché hanno trovato nel tango un’alchimia perfetta, qualcosa che va oltre la tecnica dei passi.

Quanto ha a che fare con te questa filosofia di vita del tango?
Più di quanto si possa immaginare. Per me è fondamentale anche e soprattutto nel lavoro che faccio. È ciò che cerco nella regia: che gli attori, cioè, si affidino a me e, nello stesso tempo, che io mi fidi di loro. Per dirla in poche parole, bisogna ballare il tango insieme. E quando dico “insieme” intendo tutti quanti, inclusi i tecnici. Il mio compito – il compito del regista – è di riuscire a fare un gruppo. Anche quando i lavori sono difficili e complicati, quando ci sono tante persone che non si conoscono tra di loro, o alcuni attori non vanno d’accordo con altri – questo accade soprattutto tra donne – oppure quando ci sono attori e ballerini insieme.

Attori e ballerini fanno fatica a stare insieme?
All’inizio si crea sempre confusione, perché hanno due linguaggi completamente diversi. L’attore si sente sminuito, perché parlo di più con i danzatori. E mentre cerco di far capire a questi ultimi il sottotesto, loro vogliono la musica alta, e l’attore dice: “Non si sente la mia voce”, oppure “Mi danno fastidio, non riesco a concentrarmi”. Per quanto riguarda me, faccio sempre finta di nulla. Poi arriva il giorno che domando all’attore: “Ti fidi di me?”. E a quel punto mi risponde: “Sì”. Allora va tutto a posto. È sempre successo così, fortunatamente.

Che cosa devono avere due ballerini per toccare le corde della tua emotività?
Guarda, io non so ballare bene il tango, ma amo vederlo ballare. E riesco a capire, a mio giudizio, quando è vero tango e quando non lo è. Non lo è quando due non ballano “di pancia”, cioè con il cuore, quando danzano per gli altri, per farsi vedere e non comunicano nulla. Lo è, invece, quando una coppia – magari meno bella, meno brava, persino più su con l’età – si racchiude in un cerchio e ti racconta una storia. È anche questione di sinergia, di passaggio dell’energia da lui a lei e viceversa.

Immagino che, durante la tua carriera, ti sia capitato di lavorare con ballerini che non riuscivano a esprimere una storia. Che cosa succede in questo caso?
Sì, è successo e, come regista, ho provato un senso di frustrazione massima. Non è colpa dell’attore (o del danzatore, in questo caso), lo dico sempre, è colpa del regista che non è riuscito a stabilire quel contatto necessario per far venire fuori emotività ed energia e condurle dove voleva. D’altra parte esistono dei muri impenetrabili, attraverso i quali non si può passare. E quando mi imbatto in uno di questi, lo vivo sempre come una sconfitta.

E Milton Fernández è stato una scommessa?
In realtà no, Milton lo avevo già visto lavorare. Lui incarna veramente la filosofia del tango, e non solo quando balla ma anche quando ti parla, quando si muove. Sono molto attenta a che cosa dice il corpo, tant’è che i miei provini sono in stile “facciamo una chiacchierata. La parte è poco importante da sentire, è qualcosa che arriverà dopo, dopo un lavoro fatto insieme.

Quale tango di “Artemide” ti ha lasciato senza fiato?
Il tango di quando la luna è rossa. Lui è convinto che lei lo lascerà per sempre, e le chiede scusa. All’inizio, perciò, lei lotta perché non vuole ricadere in questa situazione, però l’amore che prova per lui è più forte. E in quel ballo descrivono tutto. Infatti è l’unico tango in cui non si toccano, ma si baciano.

A proposito di baci, ho notato che in questa versione di “Artemide”, rispetto a quella rappresentata lo scorso maggio al Teatro Filodrammatici di Milano, c’è più sensualità. Che differenza c’è tra la coppia Oreste-Artemide della prima e seconda versione?
La prima volta ho lavorato sull’acidità e sull’odio. Ne è rsultata una coppia spaccata, che non aveva più niente da dirsi, piena di quella tristezza che rimane in tutte le coppie, quando non si sopportano più, si attaccano in continuazione e non riescono a dirsi: “Lasciamoci, ma lasciamoci bene, mantenendo tutto quello che c’è stato prima”. Artemide era molto acida e incattivita. Anche il rapporto tra padre e figlio era più cameratesco. Oreste era più perso, più drogato dalle caramelle che distribuiva, voleva sfuggire quella vita. In questa seconda versione, invece, lui è molto centrato, consapevole del grande amore che prova per Diana/Artemide e che magari non ha avuto mai il coraggio di confessarle fino in fondo. Lo trova alla fine, quando le dice: “Scusami, io ti ho sempre amata”. E in questa versione, a differenza della precedente, sono convinta che lei tornerà.

Ci dai un’anticipazione di quello che sarà il tango nelle prossime produzioni?
Quello che voglio fare in tutte le prossime produzioni – e inizierò con “Il tango di Stravinsky” – sarà proprio un lavoro di movimento scenico attoriale legato al tango, e quindi al cerchio. In altre parole, farò recitare gli attori sulle linee del tango e loro – durante il laboratorio, la messa in scena, la preparazione del personaggio – dovranno danzarlo tra di loro. Non il tango inteso come ballo, ma come movimento. Inoltre, gli attori andranno a coordinare i tempi del tango, prima di dire la battuta. Perché il tango è ascolto: io non vedo mai i tuoi piedi, però sento quando ti muovi e sento dove mi vuoi portare. Anche un attore ha bisogno di sentire quando l’altro collega è pronto a parlare. Sovrapposizioni di battute o silenzi prolungati non voluti succedono perché non sono abituati ad ascoltare il corpo e l’energia dell’altro. Così, a volte, per allenarli li bendo, li faccio andare a occhi chiusi, costringendoli ad affidarsi

Questa idea di “tango esteso” è davvero un’interessante rivoluzione/innovazione…
In effetti, Teatro Tango è una realtà ben più complessa di una serie di opere teatrali, in cui vengono inserite danze e musiche di tango: quello che c’è dietro è proprio la filosofia di vita di questo ballo.

 

 

“Miniera” cantato da Nilla Pizzi è il tango che Elisabetta Vicenzi porta nel cuore dall’età di 7 anni. Allora papà e mamma la portavano in balera con gli amici. Lui era “un bravissimo ballerino, anche molto bello, non lo faceva di mestiere, ma era cresciuto nei tempi in cui un uomo doveva saper ballare molto bene”. Quando suonavano questo tango, lui invitava la figlia a danzare. “E io ho iniziato a ballare”, spiega, “sulle scarpe di mio papà, appoggiando i miei piedi sui suoi”.

—————————- intervista di Marianna Sax, 11 dicembre 2015 —————————-

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